Paolo Rizzi

La bicicletta come archetipo. Come trovo oggi il “puzzle” di Franca Faccin, a dieci anni di distanza? Dovevo correggere, in un certo senso, le mie impressioni del 1991. La forma su cui da anni lavora l’artista opitergina – appunto la sagoma di una bicicletta – è diventata ancora più coerente più serrata, più netta. Ora siamo arrivati alle “variazioni dell’amor coniugale” di cui parlava Kirkegaard. La Faccin s’è impadronita a tal punto della sua “matrice” bicicletta che si può parlare non più di invenzione estemporanea, o appunto di “instabilità”, ma di autentico stile. E dico questa parola a ragion veduta. Siamo di fronte ad uno stile, non a quello che i pubblicitari tendono a chiamare “logo”.

Da che cosa lo deduco? Da molti elementi. Anzitutto dal più curioso: che è quello “dell’ideogramma” che gira in ogni quadro, ora di qua ora di là, talora occupando anche più di metà dello spazio. All’origine quello “ideogramma” era un giro di freni della bicicletta: quindi un motivo segnico. Poi, col tempo, s’è identificato con il concetto stesso di bicicletta. Tanto che, se qualcuno le chiede “Cosa significa?”, lei, l’autrice, risponde divertita: “Non legge?”. È come se “l’ideogramma” semanticamente rappresentasse una bicicletta; ed esso stesso diventasse, per qualche verso, la firma della pittrice. È un senso inestricabile. Ma poi (occorre dirlo?) basta notare la sicurezza con cui viene condotto il motivo grafico della bicicletta, secondo lievi modifiche che mai restano gratuite, bensì rispondono a slittamenti emotivi, a impulsi psichici, a scatti di energia compressa. Ormai la Faccin possiede così a fondo il ritmo, la cadenza, il sviluppo grafico del motivo, da poterne spostare lievemente la struttura senza turbarne l’intimità compositiva, la vibrazione della mano che traccia il segno diventa, appunto, stile. Così per il colore: che obbedisce a spostamenti e scambi con assoluta naturalezza, come ad esempio in Mondrian, dando l’impressione di una formula matematica che muta e poi si ricompone, dando sempre gli stessi risultati. E certe pezzature possono restare piatte, magari sul rosso o sul blu, mentre si sciolgono in finissime screziature che sono quasi trasparenze dell’epitelio cromatico.

Tutto risponde ad una medesima concezione di base: è la “reductio ad unum” di cui parlavano, assieme, il pittore Piero della Francesca e il suo amico matematico Luca Pacioli. Capiscono come in questi ultimi anni Franca Faccin e la “sua” bicicletta siano diventate un tutt’uno. La mano corre dove la mente detta; e l’immagine, covata da tanto tempo, scatta con immediatezza fatale, senza alcuna remora. Lei stessa ama ricordare una metafora cinese citata da Italo Calvino nelle sue “lezioni americane”. Un re vuole da Chuang-tzu, famoso pittore, il disegno d’un granchio. L’artista gli chiede cinque anni di tempo, una villa e dodici servizi. Passati i cinque anni, il re vuol vedere il granchio “non sono ancora pronto” – risponde Chuang-Tzu – “torni tra altri cinque anni”. Finalmente, dopo dieci anni, l’artista davanti al re impaziente prende il pennello e in un battibaleno traccia la forma perfetta di un granchio.

Tutto questo lento ma inesorabile e per fulmineo “possesso della forma” nacque nella mente di Franca Faccin per caso, come solitamente succede. Ma fu un caso “guidato” e, per qualche verso, “desiderato”. In un giorno del 1987 lei vide un amico che stava aggiustando la sua bicicletta. Questa le appariva rovesciata, cioè al di fuori della visione convenzionale. Scattò qualcosa nella mente pittrice: subito dopo alla fece uno schizzo, poi lo rimeditò; lo continuò, lo sintetizzò. Naquero allora i primi dipinti di biciclette, comprensibili subito nella struttura.

Quel che colpiva, allora, erano i raggi resi a spicchi, con colori primari piatti, appunto alla Mondrian. Ma poco dopo, nello stesso 1987, si focalizzavano alcuni particolari dal segno circolare o a voluta, con prevalenza di toni gialli e ocra, appena contrappuntati da blu e rosso (ed era un’eco stavolta di Licini). La forma diventava in un certo senso astratto: era il “giro di freni” a volgersi in puro ritmo bidimensionale. Furono mesi entusiasmanti per l’artista: ne uscirono opere che ancor oggi appaiono esemplari, anche laddove compariva, là in alto, il sogno azzurro di una marina. Lei oggi dice: “Ho seguito il mio impulso. Ho sfrontato la bicicletta della sella e dei pedali: sono rimaste le ruote col giro di freni”. E ama citare, a proposito di questo processo riduttivo, di tensione verso la sintesi, un passo di Morandi quando dice (ella cita a memoria) “Gli oggetti non devono creare problemi. Non ci si deve sforzare di rappresentarli: occorre esserne padroni per diventare liberi”. Poi, all’interno di queste splendide “variazioni sul tema” è uscito, come per partenogenesi, il motivo ricorrente “dell’ideogramma”, è persa all’inizio (e può apparire ancora) una scrittura cinese. In realtà si tratta di un “giro di freno” essenzializzato in un gesto che è meditato e insieme spontaneo: preciso e insieme mobile. Come s’è detto: esso indica (come per il “nome della rosa” d’Umberto Eco) il nome stesso della bicicletta e, di conseguenza, la firma dell’artista. Proprio dalla gestualità del segno, che “nell’ideogramma” appare evidente, avviare il passaggio alla gestualità di tutto il dipinto. Ci si avvicina per “leggere: tutto, segno e colore, si improvvisa nella nostra fantasia interpretativa ma – ed è qui la qualità prima – resta fermo come un archetipo: una figura mitica che si imprime nella nostra memoria.

Allora noi “vediamo” qualcosa di diverso della bicicletta, come per la prima volta Picasso “vide” la testa di un toro dall’incrocio di una sella con un manubrio. È il passaggio junghiano ad un un conscio collettivo. Naturalmente ci guida la nostra cultura: è chiaro che quegli spicchi della ruota, con i loro colori puri, ricordano Mondrian, come pure aleggia l’evocazione di un “angelo” nello spazio, così tipico i Licini. Sono riferimenti: alla fine l’immagine è se stessa, soltanto se stessa: così perentoria e netta.

La sintesi è la stata raggiunta.

Nell’osservare più a fondo queste biciclette “sublimate”, si resta attoniti. C’è indubbiamente un quoziente sensuale, che il giro dei freni e le ruote rendono simbolicamente: quasi uno slancio lieve ed elastico, persino qualcosa che riflette un viluppo organico, quasi di membra umane che si stirano nello spazio con seducente eleganza. Ma c’è anche (come non ammetterlo?) un quoziente spirituale, cioè un anelito alla purezza, la ricerca di una “misura aerea” che sta lì, appena percettibile ma pronta a indicare il momento pur instabile di una perfezione ideale. S’aggiunge il dinamismo stesso della forma, che ci rende l’apparizione di una straordinaria “macchina volante” nello spazio, appunto il concetto stesso, essenzializzato, di vitalità… e pò quei segni misteriosi che alludono ad un “altro”, ad una entità arcana che ci coinvolge, come se ci riconoscessimo nel ritmo stesso degli “ideogrammi” ed improvvisamente imparassimo a leggerli. Ancora: la forza emblematica del colore, che si fa dionisiaca, quasi orgiastica nei rossi e nei blu sparati, ma poi (anche qui: come non evvedersene?) si piega dolcemente ad un canto apollineo. La bellezza è là, a due passi: basta allungare la mano per coglierla.

Tutto questo da una bicicletta? Certo. Il viaggio della mente può continuare. Ormai lo stile – ripetiamo questo termine – di Franca Faccin ci ha presi: come (per citare) i volti di Jawlenskij o i nudi di De Kooning. Non sono più volti o nudi; non sono più biciclette. L’arte ha tutto trasposto in una forma ideale, al limite della perfezione.

Venezia, 2001